Contro l’ex ministro dell’Interno le parole dell’allora Guardasigilli Claudio Martelli. “Gli avevo detto che il Ros incontrava Ciancimino”. Mancino nega. “Fece pressioni sul Quirinale per condizionare indagini”. Il pm Tartaglia: “Fu fatta una seconda trattativa con le opere d’arte”. Il ruolo di Messina Denaro. Le “trame nere” del generale Mori
“L’’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino ha detto il falso”, esordisce il pubblico ministero Nino Di Matteo. La requisitoria del processo “Trattativa Stato-mafia” affronta uno dei capitoli più delicati. Il titolare del Viminale nel 1992 è accusato di falsa testimonianza. “Ha scelto la menzogna, l’omertà istituzionale”, accusa Di Matteo. “Le affermazioni di Nicola Mancino sull’incontro con il giudice Paolo Borsellino al Viminale nel giorno del suo insediamento sono state oscillanti e contraddittorie”. In un primo tempo, Mancino negò di aver visto il magistrato. Ma sono soprattutto le parole dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l’esponente politico.
“Mi lamentai con lui del comportamento del Ros”, ha messo a verbale l’ex ministro della Giustizia. “Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino”. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. “Dice il falso”, accusa Di Matteo.
In aula, vengono lette le intercettazioni fra Mancino e Loris D’Ambrosio, allora consigliere giuridico del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “In quelle intercettazioni – dice Di Matteo – risulta il tentativo da parte del privato cittadino Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria e addirittura le scelte di un collegio dei giudici”. Mancino non voleva essere messo a confronto con Martelli. “Quel tentativo – prosegue Di Matteo – invece di essere stoppato, venne alimentato e assecondato dal Quirinale”. Il pubblico ministero cita l’allora presidente Napolitano: “Fu irrituale il suo suggerimento, esternato da D’Ambrosio al telefono, di fare un confronto fra Mancino e Martelli, soluzione che lo stesso Mancino scartò subito”.
Per Di Matteo, Mancino aveva “una vera e propria ossessione” e “fece un pressing costante nei confronti della presidenza della Repubblica, per ostacolare le indagini della procura di Palermo”. Dopo una lettera del segretario generale della presidenza della Repubblica, l’allora procuratore generale della Cassazione Esposito convocò il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Che dichiarò, senza mezzi termini: “Non c’è stata alcuna violazione del protocollo sul coordinamento fra le procure di Palermo e Caltanissetta (che indagavano sulla trattativa – ndr), non ci sono gli estremi per l’avocazione dell’inchiesta”. Dice oggi Di Matteo: “Il procuratore nazionale fu convocato oralmente, Grasso invece pretese di dare una risposta scritta. Il comportamento di Grasso fu intransigente e corretto”.
Nella sua risposta, Grasso mise in oggetto: relazione onorevole Mancino. “Grasso riportò tutto alla cruda realtà”, dice Di Matteo. “Qualcuno avrebbe voluto aiutare il privato cittadino Mancino. Grasso, invece, respinse al mittente ogni pressione”.
- LA SECONDA TRATTATIVA
Dice il pubblico ministero Roberto Tartaglia: “C’è stato un secondo piano di trattativa, che è passato alla storia, per semplificazione, come ‘Seconda trattativa’ o ‘trattativa delle opere d’arte’. E’ un canale di trattativa assolutamente sincronico, perfettamente coincidente con le tappe della trattativa principale”. La requisitoria prosegue con un altro mistero di quella stagione del 1992, il dialogo fra Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia nazionale vicino al mondo dell’eversione nera, e il maresciallo Roberto Tempesta. Un infiltrato nel mondo delle cosche e un investigatore in contatto con il generale Mori.
“Quando la trattativa con Vito Ciancimino va avanti – dice Tartaglia – quella delle opere d’arte si ferma, mentre quando quella principale rallenta e Riina dice: ‘Ci vorrebbe un altro colpettino’, quella delle opera d’arte va avanti, fino alla conclusione che è sovrapponibile alla conclusione dell’altra”.
Bellini era in contatto con il boss Antonino Gioè. Oggetto della trattativa-scambio erano alcune opere d’arte in possesso di Cosa nostra, i mafiosi chiedevano in cambio un trattamento carcerario di favore per alcuni vecchi boss.
“Venne chiesto a Messina Denaro di procurare delle opere – spiega il pm Roberto Tartaglia – alcuni mafiosi fecero un incontro nella gioielleria di Francesco Geraci a Castelvetrano”. Opere d’arte che erano state rubate negli anni dai clan e poi nascosti.
“Com’è possibile – si chiede il magistrato – che i carabinieri non seguirono Bellini, che aveva ripetuti contatti con autorevoli mafiosi?” Per la procura, il comportamento del generale Mori è stato sempre “oltre e contro le regole”.
- LE TRAME NERE
Tartaglia ripercorre la carriera del generale Mario Mori, entrato giovanissimo nei servizi segreti. Poi, però venne allontanato. Per delle ragioni emerse da due documenti scoperti negli archivi dei Servizi dai magistrati, che hanno potuto contare su un investigatore d’eccezione, il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, esperto di trame nere. In un documento, un ufficiale dei Servizi ribadiva la necessità che Mori restasse lontano “fino alla fine del processo sul Golpe Borghese”. Un altro ufficiale spiegava che Mori era stato allontanato “a seguito della istruttoria sulle trame nere”. Era proprio l’inchiesta
sul Golpe Borghese. Fonti confidenziali di Mori ai Servizi erano i fratelli Giorgio e Gianfranco Ghiron, il primo poi diventato l’avvocato di Vito Ciancimino.
“Riteniamo provati i rapporti fra Mori e la loggia massonica P2”, accusa il pm Tartaglia. “Il modus operante di Mori è stato sempre deviato, secondo il motto ‘Sciolto e libero da ogni regola’. L’ha fatto ai servizi segreti, e poi ancora nel 1992 con Vito Ciancimino”.
(Repubblica.it – Salvo Palazzolo)