È una partita che riguarda almeno un siciliano su 8. Ed è la sfida sulla quale si gioca il futuro dell’Isola. Sul tavolo di Mario Draghi i fascicoli che riguardano la Sicilia sono tanti, ma due tengono con il fiato sospeso 600mila persone: il dibattito sul rifinanziamento del reddito di cittadinanza, che tiene a galla 550mila siciliani, si intreccia in queste ore con quello sul blocco dei licenziamenti, senza il quale secondo gli osservatori andrebbero in fumo 37mila posti di lavoro. Alla nuova maggioranza, e ovviamente al nuovo Consiglio dei ministri, spetterà decidere: ma i dossier che riguardano l’Isola sono tanti, dall’eterno dibattito sul Ponte (e di riflesso sui fondi del Recovery plan) al buco da 65 milioni che la Finanziaria della giunta Musumeci spera ancora una volta sia colmato da Roma.
L’equilibrio più delicato, però, è ovviamente quello che si gioca sul reddito di cittadinanza. Con una valenza politica – il Movimento 5 Stelle, che alle elezioni in Sicilia ottenne un perentorio 28-0, lo ritiene irrinunciabile – ma soprattutto sociale: l’Isola è infatti secondo l’EuroStat la regione d’Europa con il più alto rischio di povertà, e qui secondo l’ultimo bollettino Inps, aggiornato a dicembre, si sorreggono sul beneficio le sorti di 551.915 persone. «Il reddito di cittadinanza – ha annotato la Svimez nell’ultimo rapporto – ha contribuito significativamente a ridurre la platea dell’esclusione e della marginalità fornendo un reddito minimo garantito». «Un milione di siciliani – avvisa il segretario generale della Cgil siciliana, Alfio Mannino – vive almeno in condizione di povertà relativa, se non assoluta». «I sussidi – ha detto il premier incaricato parlando al meeting di Rimini il 18 agosto – sono una prima forma di vicinanza, servono a sopravvivere, a ripartire. Ma finiranno e ai giovani bisogna dare di più».
L’altra questione è in realtà molto più ravvicinata. Il 31 marzo scadono infatti sia il blocco dei licenziamenti che la possibilità per le aziende di accedere gratuitamente alla cassa integrazione Covid: se le due misure si interrompessero bruscamente, ha calcolato alla fine dell’anno scorso l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, la Sicilia perderebbe 37mila posti di lavoro. «Entrambe le misure – ha osservato Damiano – andrebbero prorogate fino a tutto il 2021». Le richieste delle aziende, invece, sono opposte: facoltà di licenziare, ma senza interrompere la cassa Covid. «Se dovessero finire cassa integrazione e blocco dei licenziamenti – tuona Mannino – è a rischio non solo la tenuta sociale, ma anche quella democratica della Sicilia». Nell’Isola ci sono 72 crisi aziendali in corso.
Poi ci sono le partite legate alla ripartenza. Una si intreccia con l’assetto del governo: il ministro del Mezzogiorno uscente, Peppe Provenzano, aveva ottenuto che al sud fosse destinato almeno un terzo delle risorse del Recovery Plan, e una richiesta analoga è stata ribadita in questi giorni da Sicilia e Campania, ma secondo il grillino Adriano Varrica, che si rifà a una dichiarazione del capogruppo salviniano alla Camera Riccardo Molinari, «la Lega vuole entrare nel nuovo Governo per orientare i fondi verso il nord». In questo dibattito entra ovviamente anche il Ponte: a volerlo è certamente la Regione e anche tutto il centrodestra, ma da Italia viva c’è sempre stata un’apertura.
Ciò che invece chiede la giunta Musumeci è, ancora una volta, denaro. Nella Finanziaria approvata dal governo venerdì – ma non ancora tradotta in un testo trasmesso all’Ars – c’è un buco da 300 milioni attribuito dall’assessore all’Economia Gaetano Armao alle entrate tributarie che la Regione aveva previsto in eccesso: stando alle indiscrezioni diffuse da Palazzo d’Orléans 65 milioni dovrebbero essere coperti da un nuovo accordo con lo Stato. Che, appena un mese fa, ha dato il via libera a uno spalma-disavanzo da 1,7 miliardi, imponendo in cambio una rigorosa cura dimagrante. La prima risposta è già un tentativo di aggiungere un buco alla cintura. Cercando una sponda nel governo che ancora non è nato.
Fonte La Repubblica