La procura chiede 6 anni per l’ex ministro dell’Interno accusato di falso, 15 per il generale del Ros, 12 per l’ex senatore FI. Cinque anni per Ciancimino, accusato di calunnia. In totale, 90 anni di carcere. Di Matteo lascia Palermo
“Sono colpevoli e vanno condannati”, dice il pubblico ministero Vittorio Teresi. Gli uomini dello Stato e gli uomini della mafia accusati di aver dialogato – peggio, trattato – mentre esplodevano le bombe fra la Sicilia e il Continente. “15 anni per il generale Mario Mori, 12 per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno – le richieste della procura alla corte d’assise sono pesanti – 12 per Marcello Dell’Utri“. Fra gli imputati c’è pure l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso: per lui la procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: “16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà“, dice Teresi, accanto a lui ci sono i colleghi Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Tutti in piedi davanti ai giudici.
Una richiesta dello stesso tenore sarebbe arrivata anche per l’imputato principale di questo processo, l’artefice della strategia stragista, il capo di Cosa nostra Salvatore Riina, che è morto a dicembre. Per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, la procura chiede 5 anni. Per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, viene invece sollecitato il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. Stessa richiesta per il pentito Giovanni Brusca. “Riteniamo di aver raggiunto la prova piena della responsabilità degli imputati – dice l’accusa – alcune tessere di questa storia sono sporche di sangue. Il sangue delle vittime delle stragi”.
Dopo 4 anni e 8 mesi di dibattimento, 210 udienze, il processo Trattativa Stato-mafia è all’ultimo capitolo, davanti alla corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille). “Questo processo riguarda i rapporti indebiti fra Cosa nostra e alcuni esponenti delle istituzioni”, hanno detto i pubblici ministeri nel corso delle otto udienze della requisitoria. Per la prima volta, mafiosi e uomini delle istituzioni sono insieme sul banco degli imputati. Sono accusati di minaccia e violenza a un Corpo politico dello Stato. “Nel 1992, con il delitto dell’eurodeputato Lima e poi con le stragi Falcone e Borsellino, i mafiosi volevano vendicarsi, ma anche inviare un messaggio di ricatto al governo e alle istituzioni, Cosa nostra cercava la mediazione”. Questo il cuore dell’atto d’accusa della procura. I pm hanno citato anche le parole di Totò Riina intercettate in carcere qualche anno fa: “Io al governo gli devo vendere i morti”.
LA PRIMA TRATTATIVA
Secondo l’accusa, nel 1992, “gli uomini del Ros avviarono una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un “papello” con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi”. Circostanza negata dai carabinieri imputati, ma del “papello” non ha parlato solo il figlio di Vito Ciancimino, oggi in carcere per calunnia, ma anche un autorevole dichiarante, il boss Pino Lipari, l’ex ministro dei lavori pubblici di Provenzano, che ha accettato di deporre in aula. Mori ha poi sempre negato di avere incontrato l’ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino, i primi contatti sarebbero stati tenuti da Donno. La procura ritiene diversamente.
Durante l’inchiesta “Trattativa” è emerso che un mese dopo la morte di Falcone, l’allora capitano De Donno chiese una “copertura politica” per l’operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l’ex sindaco) al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, che però rimandò l’ufficiale ai magistrati di Palermo. Il 28 giugno, la Ferraro parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: “Ci penso io”. E da quel momento, il mistero è fitto. Cosa sapeva per davvero Borsellino? A due colleghi disse in lacrime (un’altra circostanza che abbiamo scoperto attraverso l’inchiesta di Palermo): “Un amico mi ha tradito”. Chi è “l’amico” che tradì? Alla moglie, il magistrato parlò del generale Subranni: “Mi hanno detto che è punciuto”. Cosa aveva scoperto Borsellino? Gli ufficiali si sono sempre difesi: “Parlando con Ciancimino, volevamo solo arrestare Riina”. Ma i pm hanno accusato: “Hanno agito fuori delle regole”.
L’ACCUSA A MANCINO
Sono state le parole dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l’ex ministro dell’Interno Mancino. “Mi lamentai con lui del comportamento del Ros”, mise a verbale l’ex ministro della Giustizia davanti ai giudici di Palermo. “Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino”. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. “Dice il falso”, accusano i pm.
LA SECONDA TRATTATIVA
Dopo l’arresto di Riina, nel 1993, i boss avrebbero avviato una seconda Trattativa, con altri referenti, Bernardo Provenzano e Marcello Dell’Utri. Mentre le bombe mafiose esplodevano fra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici. “Dell’Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso”, accusano i pubblici ministeri. “Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell’Utri e recapitato a Berlusconi”. E ancora: “Nel 1994, Dell’Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”.
Ma quando è emerso per la prima volta un indizio della cosiddetta “trattativa”? Al periodo agosto-settembre 1993 risalgono una nota del Sco della polizia e una nota della Dia, che riferiscono di una “trattativa” in corso. In quei documenti compare per la prima volta il termine “trattativa”. Poi, tre anni dopo, fu il pentito Brusca a parlare ai magistrati della “trattativa” che Riina avrebbe portato avanti.
Dagli archivi del Dipartimento delle carceri, è saltato fuori invece un documento firmato dall’allora ministro Giovanni Conso, contiene la lista di quattrocento mafiosi a cui non venne prorogato il 41 bis. In un archivio del Viminale, i pm hanno trovato un altro documento: nel corso di una riunione del comitato nazionale dell’ordine e la sicurezza, del 1993, l’allora capo della polizia Parisi sollecitava un allentamento del regime carcerario. Per i pm, la linea della fermezza durante i mesi delle stragi fu solo una “retorica affermazione”. Per la procura, invece, alcuni rappresentanti delle isituzioni trattarono. “Spinti da esigenze personali, politiche, da ambizioni di potere contrabbandante da ragion di Stato”.
VERSO LA SENTENZA
La settimana prossima, in aula toccherà alle parti civili costituite in giudizio: il Centro studi Pio La Torre, il Comune di Palermo, l’associazione Libera, l’associazione Familiari delle vittime della strage dei Georgofili, poi ancora la Presidenza del Consiglio dei ministri, la Presidenza della Regione Sicilia e l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, parte lesa dal reato di calunnia contestato a Ciancimino. Quindi, sarà il momento delle difese. La sentenza potrebbe arrivare ad aprile. Intanto, oggi è l’ultimo giorno di Nino Di Matteo al processo di Palermo. E’ lui stesso a dirlo durante la requisitoria: “Con questa udienza, termina l’applicazione per me e per il collega Del Bene, che siamo ormai in servizio alla Direzione nazionale antimafia”.
Di Matteo ricorda i suoi 25 anni fra Palermo e Caltanissetta: “Già all’inizio di quest’ultima inchiesta, sapevo che avrei pagato un costo, e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che siamo stati mossi da finalità eversive, nessuno ci ha difeso, siamo rimasti isolati. Lo avevamo messo nel conto. Abbiamo agito – conclude Nino Di Matteo – solo per cercare la verità, nel rispetto delle leggi, rifuggendo ogni calcolo di opportunità”.
Repubblica.it – Salvo Palazzolo