Nel cuore della Sicilia, le mafie si riorganizzano. Con i boss scarcerati e gli insospettabili. Uno dei mandanti del delitto del giudice Rosario Livatino, Angelo Gallea, aveva rilanciato la “Stidda”, l’altra mafia, da quando era in semilibertà. I suoi fedelissimi stavano pianficando nuovi affari e anche due omicidi. “Cosa nostra” poteva contare invece su un’avvocatessa di Canicattì, Angela Porcello: nel suo studio di via Rosario Livatino organizzava summit di mafia e intanto continuava a fare uscire dal carcere i messaggi dei padrini rinchiusi al 41 bis. Il boss scarcerato e l’avvocatessa diventata boss, i due volti dei clan che non sembrano per nulla fiaccati da blitz e processi: sono stati arrestati questa notte dai carabinieri del Ros insieme ad altre venti persone. Destinatario del provvedimento di fermo è anche Matteo Messina Denaro, ma il boss trapanese un tempo pupillo di Totò Riina resta latitante, ormai dal 1993. Però, questa volta, sappiamo molto di più di tutto ciò che gli ruota attorno.
L’ultima indagine coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Paolo Guido è il racconto in diretta della mafia siciliana. “La presenza è potenza”, si vantavano i padrini agrigentini che gli investigatori hanno intercettato per due anni. “Avevano un’attuale e segretissima rete di comunicazione con il latitante Messina Denaro – scrivono i pm Claudio Camilleri, Gianluca De Leo e Geri Ferrara – e lo riconoscevano unanimemente come l’unico a cui spetta l’ultimo parola” nelle decisioni importanti. Ad esempio, la nomina di un capomandamento. O un affare che gli emissari del clan newyorkese dei Gambino arrivati a Favara proponevano ai siciliani. “Messina Denaro è a tutt’oggi in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere di Cosa nostra – è l’analisi di chi indaga – nonostante la sua eccezionale capacità di ecclissamento ed invisibilità che lo rendono ancora imprendibile”.
In carcere sono finiti sei capi di Cosa nostra agrigentina, che avevano rapporti con mafiosi di tutta la Sicilia: i pm sottolineano “l’unicità di Cosa nostra”. In manette anche tre capi della rinata Stidda” e altri nove mafiosi. Arrestati un ispettore della polizia penitenziaria e un assistente capo della polizia di Stato, entrambi in servizio ad Agrigento, sono accusati di essere stati a disposizione dell’avvocata dei clan.
Il ritorno degli ergastolani
Angelo Gallea, il mandante dell’omicidio del giudice Livatino, aveva lasciato il carcere il 21 gennaio 2015, dopo aver scontato 25 anni. Era ritenuto un detenuto modello. Ora, i pm di Palermo scrivono nel fermo che lo riporta in carcere: “Il provvedimento che ammetteva al beneficio della semilibertà, emesso dal tribunale di sorveglianza di Napoli, si basava tra l’altro anche sulla declaratoria di “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia”. Ovvero, la dichiarazione che tutti i reati da lui commessi erano stati accertati e dunque sarebbe stata impossibile una sua collaborazione.
In realtà, Gallea conservava ancora tanti segreti, che sono diventati la sua forza nel momento in cui è tornato in libertà. Segreti su vecchi complici, affari e patrimoni mai scoperti. Il 6 ottobre 2017, anche un altro esponente della “Stidda”, pure lui condannato all’ergastolo, era stato ammesso alla semilibertà dopo 26 anni dal tribunale di sorveglianza di Sassari, con l’autorizzazione a svolgere attività lavorativa all’esterno del carcere. E pure lui era tornato a delinquere.
“Entrambi hanno sfruttato la disciplina premiale prevista anche per i detenuti ergastolani – scrivono i magistrati nel loro provvedimento di fermo – per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati in passato e così rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della Stidda, condannata da tempo all’estinzione, e proiettarla con spregiudicatezza e violenza nel territorio agrigentino”.
A differenza del passato, Cosa nostra e Stidda avevano stilato un “accordo di pace”, tuttavia, osservano gli inquirenti, “continuavano a guardarsi con diffidenza”. In gioco c’erano soprattutto tanti affari, legati alle mediazioni nel mercato ortofrutticolo della provincia di Agrigento.
Avvocatessa e boss
Angela Porcello, 50 anni, avvocato dal 1996, è finita in carcere con l’accusa di associazione mafiosa. Scrive la procura: “Aveva deciso di dismettere la toga e indossare i panni della sodale mafiosa, assurgendo pian piano addirittura al ruolo di vera e propria organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì”. Angela Porcello era la legale dello storico boss Giuseppe Falsone, il capo della provincia mafiosa di Agrigento arrestato nel 2010 a Marsiglia. Era lei a far uscire dal carcere i messaggi del padrino. E anche altri boss l’avevano nominata. Così, l’avvocata di Canicattì era diventata una perfetta messaggera.
Ricostruiscono i magistrati: “Il suo studio legale era stato selezionato ed individuato quale base logistica da un gruppo di capi famiglia”. I boss erano sicuri di non essere intercettati lì dentro. E, così, organizzavano dei veri e propri summit, alla presenza dell’avvocata Porcello. C’erano l’anziano capo del mandamento di Canicattì, che lasciava tranquillamente gli arresti domiciliari, e poi i capi delle famiglie di Ravanusa, Favara, Licata. Agli incontri partecipavano pure un mafioso di Villabate (Palermo) un tempo fedelissimo di Bernardo Provenzano e un esponente della rinata “Stidda”.
Centinaia di ore di intercettazioni, un “materiale probatorio di eccezionale rilevanza – lo definiscono i pubblici ministeri nel loro provvedimento – un materiale che ha consentito di cogliere in diretta origine ed evoluzione delle dinamiche interne a Cosa nostra dalla viva voce degli appartenenti all’organizzazione dell’intera Sicilia”.
Falle nel carcere duro
“Nel corso della presente indagine – è un altro capitolo dell’atto d’accusa della procura di Palermo – sono stati registrati, in diverse occasioni e su più livelli, preoccupanti spazi di gravissima interazione fra detenuti, fra detenuti e l’esterno nonché fra detenuti e appartenenti alla polizia penitenziaria; interazione che l’attuale sistema penitenziario non è riuscito, in tali momenti, a evitare”.
Nella casa circondariale di Novara, tre autorevoli boss – di Agrigento, Trapani e Gela – “riuscivano ad entrare in contatto, a dialogare tra loro, in alcune occasioni financo a scambiarsi informazioni finalizzate ad assicurarsi un canale di comunicazione con l’esterno”. Eppure non facevano l’ora d’aria insieme. “Hanno sfruttato – accusa i pm – le inefficienze dei controlli da parte del personale della polizia penitenziaria”. Per chi indaga, “una gravissima vicenda”; fino ad oggi quei mafiosi si sono scambiati solo “informazioni”, ma “quanto è accaduto potrebbe ripetersi – rilevano i magistrati – con progetti e strategie di altra natura, magari addirittura tali da mettere in pericolo, come purtroppo la storia insegna, anche la sicurezza dello Stato”.
Una “vicenda gravissima”, con un paradosso, anche questo diventa una pesante accusa mossa dai pm di Palermo: “L’essere sottoposti al regime del 41 bis piuttosto che costituire per i mafiosi un argine comunicativo insuperabile è stata addirittura un’occasione di incontro e di scambi di informazioni, altrimenti rischiosissimo se non addirittura inimmaginabile laddove gli stessi capimafia fossero stati liberi”.
Fonte La Repubblica – Salvo Palazzolo