Guardare il volto del Bimbo del presepe, per vedere l’altro con gli occhi di Dio
In queste settimane che precedono il Natale c’è stata un’impennata mediatica in favore del presepe, in forme inusuali e da parte di protagonisti improbabili. La circostanza dovrebbe far trasalire chi come me professa la propria fede nel mistero dell’incarnazione, del quale il presepe è una rappresentazione assai suggestiva. La tendenza comprende le modalità plastiche classiche con i personaggi raffigurati nelle forme più semplici e popolari, ma anche di spiccato spessore artistico ed estetico; e altresì le drammatizzazioni dei cosiddetti presepi viventi con rivisitazione di costumi, mestieri e contesti, eco romantica dal vago sapore archeologico. Anche la politica si è lasciata contagiare, cavalcando un’onda lunga (astutamente? maliziosamente?) che sa tanto di improponibile commistione di sacro e profano, da contrastare con il celebre verso del sacrista dell’opera pucciniana Tosca: «scherza coi fanti e lasciare i santi». Qualcuno forse plaude. Ma l’operazione presenta una spiccata ambiguità, non superata con un ipotetico richiamo di ritorno alle radici cristiane.
Peraltro, il punto nodale sta proprio tutto nell’inatteso fuorviante interesse verso il presepe, riproposto come bandiera o feticcio da opporre a quanti sono ritenuti tiepidi difensori di un’identità cristiana dell’Europa, ormai solo retaggio del passato. Infatti, ritengo che oltre la sbandierata esibizione – profanata, in ogni caso – di una icona popolare del Natale, non ci sia alcuna trasparenza di religiosità genuina e di spessore etico.
E invece il presepe è un inno alla bellezza della vita e una proposta di relazioni purificate ed esaltate. La nascita del Bimbo di Betlemme, nel contesto socio-politico e umano che la circondò, dice come niente e nessuno può ergere un argine insormontabile alla vita. Nello stesso tempo dice che le sembianze di quel pargolo sono epifania del volto amabile di Dio, che guarda e ama le sue creature, ferite dal peccato e raminghi esuli senza una meta e senza pace. Dio, in quel piccino, ha ristabilito una relazione riconciliata con l’umanità tutta, invitando uomini e donne a un rapporto nuovo, fatto di accoglienza, rispetto, stima, condivisione, solidarietà tenerezza; amore in una parola.
Senza questi aneliti il presepe è una ostentazione falsa, forse addirittura ingiuriosa, nei riguardi di Dio che, vestendo la nostra carne mortale, ha voluto fare nuove tutte le cose. Realizzare il presepe e oltraggiarsi con parole tremende a voce, o nelle piazze mediatiche dei social, offende e uccide la Parola di amore e di pace che echeggia soave e serena da Betlemme e dal presepe, sua rappresentazione di fede semplice e colorata. E Betlemme è vicina a Gerusalemme, la cui vocazione alla pace oggi è pericolosamente messa a repentaglio. Da chi inneggia al presepe, allora, è lecito attendersi un omaggio alto e operoso al Dio della vita e progetti realistici di pace, non attraverso il gesso dei personaggi, ma nei fremiti di cuori palpitanti.
Diocesi di Mazara – Max Firreri