“D’ora in poi per la mafia nulla sarà più come prima”. Sono le parole che Giovanni Falcone disse all’amico pm Giuseppe Ayala nel gennaio del 1992, giorno in cui la Cassazione scrisse l’ultima pagina di un processo storico iniziato 6 anni prima. Il 10 febbraio del 1986, in una giornata fredda e piovosa, iniziò il declino della mafia. Tutta la gerarchia di cosa nostra, dai boss più celebrati ai gregari meno conosciuti, si ritrovò nell’aula bunker dell’ Ucciardone, il carcere di Palermo, descritta come l’astronave della giustizia e costruita in tutta fretta per ospitare un evento di grande richiamo.
Partiva il maxiprocesso che il pool di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino aveva istruito per cercare di chiudere la pagina più infame della recente storia criminale. Per scrivere le oltre novemila pagine di rinvio a giudizio gli uomini del pool guidato da Antonino Caponnetto si erano ritrovati l’anno prima a vivere da reclusi nella fortezza dell’isola dell’Asinara. In quelle carte era ripercorsa la trama che, tra eccidi feroci e stragi di segno eversivo, aveva lanciato una sfida allo Stato.
Oltre a decimare i gruppi mafiosi tradizionali era stata organizzata la sistematica eliminazione di magistrati, politici, giornalisti, servitori dello Stato. La lista si sarebbe allungata con le stragi del 1992. Protagonisti i corleonesi di Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano, figure centrali e personaggi storici della folla di 475 imputati portati a giudizio. Con Provenzano, Riina era a quel tempo il latitante più ricercato. La figura di Liggio apparve invece dietro le grate di una gabbia con il solito sorriso beffardo, una tuta sportiva indossata sotto un giubbotto e il sigaro spento tra le dita.
In un’altra gabbia c’era Pippo Calò, che sfoggiava l’eleganza artificiosa del padrino che aveva le chiavi della cassa di Cosa nostra. Michele Greco, il “papa” della mafia, che esibiva un tono curiale, sarebbe stato di lì a poco arrestato nel covo di Caccamo, nel Palermitano, dove trascorreva una tranquilla latitanza e da dove ordinava imprese criminali mentre si dedicava alla lettura della Bibbia. Non a caso citò Mosé augurando la “pace” alla corte che si ritirava per la sentenza.
Tra gli imputati a piede libero c’erano in quell’aula affollata di giornalisti e telecamere i cugini Nino e Ignazio Salvo. Nelle carte del processo erano descritti come potenti esattori ammanigliati con la politica, ma erano ormai avviati verso il tramonto. Nino sarebbe morto quasi subito per un tumore e Ignazio sarebbe stato ucciso sei anni dopo nei viali della sua villa al mare. La corte era presieduta da Alfonso Giordano, che ha sempre ricordato gli ostacoli dibattimentali messi in campo per fermare il processo, con una lettura integrale degli atti chiesta dalla difesa e bloccata da una legge proposta dal ministro della giustizia Virginio Rognoni.
Giordano aveva accettato l’incarico dopo il rifiuto di altri magistrati e lo aveva fatto, ha sempre ricordato, con una forte carica civile: “Il processo ha dimostrato che la mafia esisteva ed era una pericolosa forza eversiva – ha dichiarato -. Come diceva Falcone, era un anti Stato che aveva fondamento nell’illegalità”. Giudice a latere era Pietro Grasso, che sarebbe poi diventato presidente del Senato. L’architettura del maxiprocesso era sostenuta dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, che aveva descritto la struttura verticistica di Cosa nostra e i retroscena della catena di sangue che tra il 1981 e il 1983 aveva provocato mille morti.
“Prima di Buscetta – disse Falcone – avevamo un’idea superficiale della mafia. Lui ci ha dato del fenomeno una visione globale, un linguaggio, un codice”. Il momento più spettacolare fu il confronto tra Buscetta e Calò, concluso con la disfatta del secondo. Dopo 349 udienze e 36 giorni di riunione in camera di consiglio, la corte emise la sentenza: 19 ergastoli, condanne per complessivi 2.665 anni di reclusione. Con una rimodulazione delle condanne, l’impianto del processo fu confermato in appello.
E il 30 gennaio 1992 la Cassazione scrisse l’ultima pagina di una sentenza storica. Quel giorno Falcone e il pm Giuseppe Ayala, che aveva con Domenico Signorino sostenuto l’accusa in dibattimento, si ritrovarono a cena a Roma. “Hai vinto”, disse Falcone all’amico pm, che si schermì: “Io ho chiesto le condanne. Ma quel processo lo hai voluto e istruito tu”. Su una cosa si ritrovarono d’accordo: “D’ora in poi per la mafia nulla sarà più come prima”. Prima delle vera sconfitta però il colpo di coda di cosa nostra arrivò con le stragi del 1992 e del 1993.
Fonte Gds