La Sicilia non è un’isola per neonati. Negli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017, le nascite sono diminuite del 16 per cento: quasi 8mila in meno. Meglio che nel resto d’Italia, dove il calo è stato del 19 per cento. Ma la previsione sul medio e lungo periodo è peggiore rispetto al resto del Paese, dove nei prossimi 20 anni si prevede una ripresa. Se oggi nell’Isola per ogni neonato ci sono più di sette ultraottantenni, fra dieci anni gli over 80 diventeranno 12. E nel 2028 ginecologi e ostetrici faranno nascere meno di 40mila bambini che nel 2038 scenderanno a 35mila. Emblematico il caso Palermo, che dal 2016 è stabile sotto la soglia dei 6 mila parti l’anno: non era mai accaduto negli ultimi 50 anni. È l’istantanea della crisi demografica contenuta nel rapporto Istat appena divulgato. Ma perché nella Sicilia storicamente ancorata al modello di famiglia numerosa si fanno sempre meno figli? Quanto pesano la disoccupazione, il precariato, la carenza di welfare nella rinuncia a diventare genitori? Basterà la proposta del governo giallo-verde di regalare un terreno agricolo a chi fa il terzo figlio per incoraggiare le nascite?
Si diventa adulti più tardi
In Italia il numero medio di figli per donna è sceso a 1,35. E la Sicilia fa ancora peggio, con 1,33. Allo stesso tempo si sposta più in là il momento in cui avere figli. L’età media delle madri italiane al primo parto è di 31,6 anni, in Sicilia è di 30,9 anni. Ma a far abbassare la media siciliana sono le cittadine straniere che partoriscono prima (27,7 anni). Ma la prima causa di denatalità, secondo Annalisa Busetta, ricercatrice di Demografia dell’università di Palermo, è l’invecchiamento della popolazione che fa sì che la platea delle donne in età riproduttiva si assottigli: “Il crollo è determinato per due terzi dal calo delle donne in età fertile e solo per un terzo dal mutato atteggiamento delle donne”. Insomma, oggi i tempi sociali non coincidono sempre con quelli biologici. “Gli studi terminano più tardi, l’inserimento professionale arriva dopo, la creazione di una famiglia tarda e soltanto successivamente si può pensare ai figli. E se finora le donne siciliane hanno limitato i danni, nei prossimi dieci o venti anni le cose peggioreranno”.
L’incertezza del futuro
A pesare, secondo il professore di Scienze della formazione all’università di Palermo Fabio Lo Verde, è anche la “cetomedizzazione” della società siciliana: “La famiglia tipo non è più una famiglia numerosa ma ‘puerocentrica’, dove si investe di più sul figlio in termini di risorse. Il cambiamento ha coinvolto anche le classi medio-basse orientate a strategie fecondative antiche ma che ora si stanno adeguando”. Colpa dell’incertezza lavorativa che vede la Sicilia in vetta alle classifiche della disoccupazione giovanile (40 per cento) e femminile (29 per cento), ma anche di un welfare inadeguato per sostenere le giovani coppie: “In Sicilia non fa più figli il ceto medio, che vive in maniera più angosciosa l’incertezza del futuro e ha timore di investire sui figli”, spiega Lo Verde.
Il welfare che non c’è
In Sicilia scegliere di fare un figlio è più difficile che altrove. Anche per la carenza di strutture e servizi educativi dedicati alla prima infanzia. Secondo gli ultimi dati Openpolis, nell’Isola solo un bambino su dieci sotto i 3 anni trova posto in un asilo nido pubblico. Una percentuale lontana dalla media nazionale del 23 per cento e dall’obiettivo del 33 per cento stabilito dalla legge. Per non parlare del tempo pieno a scuola, praticamente inesistente. In Piemonte il 57 per cento dei bambini ha 40 ore di lezione settimanali garantite, in Lazio sono il 56 per cento, in Sicilia appena il 9,7 per cento. E la situazione non cambia nelle grandi metropoli: a Milano nella scuola primaria il 90 per cento dei bambini ha il tempo pieno, a Palermo appena il 4,5 per cento. “È ovvio che fai figli solo se ti puoi permettere di pagare scuole private, baby sitter, attività pomeridiane. Studi recenti dimostrano che a fare più figli sono le donne che lavorano. Ma in Sicilia manca il lavoro e mancano i servizi”, dice Antonella Monastra, ex consigliera comunale e ginecologa nel consultorio dello storico quartiere-trincea dei Danisinni a Palermo.
La paura di perdere il lavoro
Eppure, anche chi un lavoro ce l’ha oggi ha difficoltà a programmare una gravidanza. “Il rientro dopo la maternità non è così scontato, specie per chi ha contratti precari e con minori garanzie”, spiega Enza Pisa, responsabile del coordinamento donne della Cgil Palermo. I dati parlano chiaro: in cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le stime dell’Osservatorio nazionale mobbing, 4 madri su 10 sono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Con un’incidenza superiore nelle regioni del Sud (21 per cento), del Nord Ovest (20) e del Nord Est (18). “Sebbene in diminuzione – dice Pisa – il fenomeno delle dimissioni in bianco esiste ancora, anche se mascherato. Ci sono molte siciliane che si rivolgono ai nostri sportelli denunciando che durante i colloqui di lavoro la prima cosa che viene chiesta e se si è sposati e se si ha intenzione di fare figli. Tutto questo si ripercuote sulla scelta di avere una gravidanza”. Il risultato è che le culle dei reparti maternità restano vuote. Come le aule degli istituti scolastici: quest’anno sono 15mila le sedie rimaste libere rispetto all’anno precedente, 4 mila solo nella scuola dell’infanzia. In compenso, nei prossimi 20 anni, aumenterà la domanda di posti nei reparti di Geriatria e nei centri per anziani.
Repubblica.it – Salvo Intravaia e Giusi Spica